Uma a Roma. A cavallo tra i quartieri Garbatella e Ostiense c’è un nuovo ristorante dal respiro internazionale, che parla anche un po’ romano. Il progetto di Uma, nato dall’idea degli chef Matteo Taccini e Luigi Senese, entrambi classe ’92, potrebbe sembrare all’apparenza un po’ criptico, ma basta mettere da parte eventuali pregiudizi verso il mondo della fermentazione, al centro della proposta, per scoprire un fine dining peculiare e informale, che si sta facendo strada nel panorama gastronomico romano fin dall’apertura dell’insegna l’8 marzo 2024.
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“Siamo due soci, abbiamo pensato tanto al nome. Poi abbiamo scelto la strada più semplice, prendendo le iniziali dei nostri nomi, Lu- e Ma-. Ma ‘Luma’ non ci quadrava, abbiamo levato la ‘-l’ e siamo andati avanti così. Noi preferiamo sempre di più togliere che aggiungere“, spiega a Puntarella Taccini, che anche in cucina predilige il concetto di sottrazione a quello di addizione.
La scelta della zona di apertura è significativa e per i due chef e amici rappresenta una sfida: “Ci piaceva stare in un quartiere un po’ contro corrente e alternativo come la Garbatella. Avevamo bisogno di un punto zero per ricominciare. All’estero ho imparato a uscire fuori dalle righe e dagli schemi. Qui è qualcosa che a mio parere ancora manca”, aggiunge Matteo, che ha alle spalle importanti passaggi nelle più stimolanti e creative cucine mondiali (Noma a Copenaghen, Tickets ed Enigma a Barcellona, Pollen Street Social a Londra). Ma è a Roma, da Imago dell’Hotel Hassler, che lui e Senese si sono incontrati, iniziando poi a immaginare il loro progetto ristorativo, che avrebbe unito artigianalità e modernità.
Uma a Roma: l’ambiente
Il ristorante si sviluppa su 250 mq totali di spazio, per circa 30 coperti. Il locale vive su due livelli, di cui uno inferiore interrato, dove c’è il laboratorio di fermentazione e vengono conservati i vini. Una struttura che si è rivelata funzionale nella ricerca. La sala principale è calda e accogliente, con tavoli fatti di legno laziale, illuminati dalle luci soffuse.
Protagonista dell’arredo è il grande bancone con dietro una cucina a vista, scelta azzeccata per un ristorante che vuole creare un rapporto di continuità con la sua clientela, attraverso la spiegazione (postuma e necessaria) dei piatti proposti. “Massima trasparenza, senza barriere, lo abbiamo voluto in questo modo”, sottolineano da Uma. L’animo artigiano si concretizza anche nell’assortimento delle ceramiche, firmate da un’artista del Pigneto, Marie. Stesso discorso per i libretti del menu, fatti a mano da una restauratrice di libri. A completare la squadra di Uma ci sono Emanuele Giunta ed Edoardo De Luca, in cucina, poi in sala la sommelier Jennifer Barba e l’esperta di accoglienza Thais Torres.
Uma a Roma: brace, fermentazione e unicità dell’ingrediente
“Passare gli alimenti attraverso la brace è per noi qualcosa di unico, ancestrale“, chiarisce Taccini, per il quale l’uso del fuoco rappresenta un po’ l’acme del cucinare: “Capire il calore, toccarlo, vederlo e andare avanti. E’ proprio il gesto del cuoco. Alla fine cos’è la tecnica? Per me anche cuocere un pezzo di carne con cotture diverse. Abbiamo scelto la robata, la griglia giapponese, aperta, versatile, con tre altezze, che ci consente di fare molte cose”. Se la brace è la parte più istintiva della cucina di Uma, la fermentazione è invece studio e passione di lunga data. “E’ quel momento in cui lo spettro del gusto si amplia. E’ sempre in movimento. Come arrivi a dare un equilibrio al piatto con un solo ingrediente? Oppure, vogliamo acidità? Ce l’andiamo a prendere”.
Di qui il lavoro su un solo ingrediente per avere gusti diversi, che si materializza attraverso l’utilizzo del koji, un fungo responsabile della fermentazione di vari alimenti. “Ha un gusto particolare: dolce, rotondo, fruttato. La sua attività enzimatica ci permette di scomporre zuccheri e proteine. Ma non abbiamo scoperto nulla di nuovo con la fermentazione, è parte del quotidiano, pensiamo alla birra o al formaggio. Oggi se parliamo di fermenti la gente è ancora un po’ scettica, è un tabù, ma riusciamo a creare un’esperienza in cui sorprendiamo il cliente“.
Cosa si mangia da Uma a Roma
Partiamo con il dire cosa Uma non è: un ristorante che propone una cucina in qualche modo ispirata al Giappone. L’equivoco potrebbe instaurarsi perché il nome dell’insegna richiama apparentemente il concetto nipponico di “umami”. Taccini ci spiega che più persone sono cadute nell’equivoco, ma così non è. Meglio lasciar parlare i piatti per comprendere la proposta: il caso più eclatante è quello della “Cacio e Pepe” (18 euro). Una pietanza che potremmo definire surrealista, nel senso magrittiano del termine.
Sebbene nell’estetica e nel gusto ricordi moltissimo il primo romano, in realtà è realizzata senza cacio, con una sorta di miso di ricotta, ottenuto con l’uso del koji. Il risultato è un ingrediente che ricorda moltissimo il vero pecorino. “Perché abbiamo provato questa cacio e pepe? Perché siamo romani. Esserlo ti lega a livello creativo anche alla tradizione. Non ci basiamo su questa, ma da lì proveniamo. Se fossi nato in Catalogna, sicuramente non avrei pensato a questo piatto”, sottolinea Taccini.
Considerando che l’esperimento coinvolge uno dei piatti più popolari nella Capitale e dintorni, si capisce come l’obiettivo sia quello di sorprendere il cliente, attraverso l’utilizzo di ingredienti alternativi. Spetta all’ospite capire cosa ci sia di nuovo in quel piatto, apparentemente mangiato mille volte. E così, quelle virgolette presenti in carta assumono tutto un altro significato. In menu ci sono anche gli antipasti (15) che puntano a esaltare e giocare con un unico ingrediente o al massimo due, come la patata, proposta in diverse versioni. Stesso discorso per gli elementi bufala e asparago. Poi si passa ai secondi (22), con il manzo e crespino, il merluzzo e nasturzio o il galletto alla cacciatora. Il menu degustazione costa 50 euro ed è composto da 8 passi, sicuramente il modo migliore per conoscere e capire la cucina di Uma.
Il dessert “Carbonara” di Uma a Roma
Uno dei dessert su cui Matteo e Luigi hanno lavorato è la “Carbonara”, sempre scritta in carta fra virgolette. Un piatto che viene completato tutto al tavolo davanti al cliente. E’ fatto di spaghetti di cioccolato 80%, spuma di zabaione, “guanciale” realizzato con la frolla bicolore al cacao, “pecorino” fatto con il macambo (bacche di cacao albino) e gruè di cacao a richiamare il pepe. Poi ci sono: il pre-dessert di sola pera (miele di pera, granita di pera, kombucha di pera), la tartelletta di panna bruciata realizzata con sola panna, dentro e fuori, o il dolce di solo cacao (spugna, gelato e gruè). La carta beverage parla prettamente italiano, anche per le bolle, con un’alternanza di referenze naturali e convenzionali. Tutte piccole cantine dalle piccole produzioni scovate con cura. Ci sono anche pairing diversi, come con il gin tonic o il kombucha.
Uma. Via Girolamo Benzoni 34, Roma. Tel. 334 3855 945. Sito. Instagram.