The Bear, una grande serie sulla ristorazione (con qualche difetto)

the bear la recensione di Puntarella

The Bear, una grande serie sulla ristorazione (con qualche difetto). (qualche spoiler, inevitabile)

Si dice che The Bear (Disney+) sia la serie che racconta meglio, con più aderenza alla realtà, la ristorazione. Senza le irrealistiche finzioni dei reality, senza la patinata e fastidiosa necessità di promuovere qualche ristorante o incensare qualche chef star. Qui siamo immersi nella pura fiction che però prova a mostrare davvero cosa c’è dietro un ristorante e quali sono i meccanismi che possono far fallire o decretare il successo di un locale. Va detto che ci riesce solo in parte. E’ una serie che nella seconda stagione parte maluccio, con qualche puntata che sembra più che altro preparatoria e poi diventa formidabile, a tratti emozionante. Ma sempre di fiction si parla e qualche eccesso retorico resta inevitabile in un prodotto del genere.

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In The Bear lavoro e vita coincidono, così come coincidono, purtroppo, per molti cuochi, camerieri e lavapiatti. E’ un lavoro massacrante, che richiedere fatica fisica, concentrazione e molte, troppe, ore di dedizione. Un settore, va detto per i non addetti ai lavori, che ha margini di guadagno molto bassi, nonostante l’enfasi sugli scontrini pazzi e sulla «rapacità» (o meglio stupidità) di certi ristoratori.

Qui Carmy, The Bear, l’orso, prova a rimettere in piedi un ristorante, dopo un fallimento precedente, che aveva portato al suicidio il fratello Mikey. Famiglia più che disastrata, con una madre, Donna, che è la fantastica Jamie Lee Curtis (come passa il tempo, due minuti fa la ricordavamo come una ragazza molto piacente e ora è diventata una vecchia signora, tremenda e rugosissima, ma bravissima). La parabola della serie è facilmente riassumibile. Tutti hanno vite complicate, piene di insuccessi e di problemi, di insicurezze e di incapacità di amare. A poco a poco, con l’impegno, la fatica di gruppo, e la volontà di farcela, riescono a trasformare le loro vite.  Carmy (Jeremy Allen White), che non riesce più ad amare, assorbito dalla nevrosi del lavoro. La sous chef Sydney (Ayo Edebiri), con un padre che instilla insicurezza. Il cugino Richie (Ebon Moss-Bachrach), che è un mezzo demente travolto dalla vita, litigioso e inaffidabile. Tina, cuoca depressa e incattivita. E così via.

A poco a poco le vite si riassestano. Il sogno di aprire un ristorante si trasforma in realtà. Le massime di vita si sprecano: il cartello «Every second counts», la citazione di Siddharta «ascolta meglio», il libro motivazionale.

Ma la bellezza della serie è nella fragilità dei personaggi. Tutti mezzi falliti e mezzi eroi. Proprio come noi. Possiamo essere tutto o niente. Dipende dalla nostra forza di volontà, dal caso, da chi ci circonda. E in un attimo possiamo ricadere. La puntata numero sei, un’ora, è una bomba. La sette, splendida.

Quanto alla credibilità della messa in scena, va detto che qui si vuole mettere in piedi un ristorante che aspira alla stella.  Il focus è tutto sulla cucina, nella brigata, oltre che nello chef. Ogni secondo conta e ognuno della squadra è fondamentale per riuscire a far girare tutto. La sala, che come sa chi conosce il mondo dei ristorante, è parte fondamentale della riuscita di un locale, è piuttosto ignorata. C’è la sorella di Carmy che se ne dovrebbe occupare, ma il tutto ha un ruolo di secondo piano. Peccato, questo è un difetto di verosimiglianza non da poco.

noma the bear

In realtà c’è la settima puntata di cui si diceva, dedicata al Noma di Copenhagen, dove il cugino di Carmy (che ci ha lavorato in passato) è in stage. Qui si racconta il mondo asettico e feroce dell’alta cucina, lo sfruttamento dei dipendenti e stagisti costretti a pulire forchette per giorni, e l’ossessione per la perfezione. C’è anche questa cosa un po’ fantascientifica per cui c’è persino uno addetto a studiare la clientela, cliente per cliente, con ricerche sui social per verificare attitudini e preferenze e un’attenzione spasmodica al dettaglio per soddisfare le aspettative. A un certo punto, siccome una cliente aveva scritto sui social di non voler andar via da Chicago senza aver assaggiato la famosa pizza locale (?!), il cugino stagista viene inviato in pizzeria e se ne torna con una teglia che, con adeguato lavoro di fine dining, viene trasformato in una serie di assaggini gourmet di pizza.

Poi ci sarebbe la questione della comunicazione dei ristoranti. Questa resta totalmente fuori dalla narrazione, anche se non si capisce come un nuovo ristorante che ambisce a una stella e ad avere il tutto esaurito nelle prime settimane, per recuperare il debito e non dover chiudere, possa farsi conoscere se non con un’attività di marketing, affidata a uffici stampa e social media manager.

Detto questo, la serie è davvero splendida, con un montaggio serratissimo (taltolta troppo). E particolarmente interessante è il tipo di cucina che fa capolino nella puntate. Una cucina davvero melting pot, con molti inserti italiani, ma contaminata con mondi lontanissimi e per questo interessante e stimolante, con qualche tocco cringe. Come quando la sous chef prepara un’omelette, guarnendola con erba cipollina, panna acida e briciole di patatine chips alla cipolla (qui c’è la ricetta, se volete osare e il Washington Post si è estasiato). 

Il sogno di The Bear è quello di approdare a un modello di ristorazione che sia di qualità e gourmet, ma non tossico, lontano dall’alienazione feroce dell’alta cucina pluristellata. Un’utopia o forse no.

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