Intervista a Nicola Perullo: “Arbitrario distinguere tra cibi necessari e non, anche lo champagne può esserlo”

Intervista a Nicola Perullo. In questo tempo di attesa, molti di noi sono soli con i propri pensieri. Per chi non è abituato deve proprio essere terribile. Allora ho pensato di chiedere aiuto a chi lo fa per mestiere . Il lavoro del filosofo, come dice Foucault, «è costruire finestre dove prima vi erano solo dei muri.»

Nicola Perullo , filosofo e professore ordinario di Estetica all’UNISG di Pollenzo. Appassionato di gastronomia fin dagli anni universitari, nella sua ricerca indaga filosofia, estetica, cibo e vino. Abbiamo parlato di “beni necessari”; del gusto aptico, termine che ha coniato, di come quest’ultimo ci proietti oltre le distanze fisiche e le barriere imposte e della lotta incessante tra norme e vita.

Ciao Nicola, anche se non sei un linguista, sarai d’accordo con me sul fatto che l’essere umano pensa attraverso le parole. Dal lessico militare, utilizzato sempre più spesso dalle bocche del discorso politico e dai media, emerge un riferimento costante ai “beni necessari”. Si crea una distinzione in campo alimentare tra l’utile e l’inutile, basata su una verità oggettiva imprecisata. Come cambia il nostro modo di pensare al cibo, se questo viene percepito in forma di viveri?

“Il linguaggio è importante. All’inizio della mia formazione l’ho imparato leggendo Derrida e l’ermeneutica, Wittgenstein e la filosofia del linguaggio. Gadamer, per esempio, scrisse una frase divenuta celebre: “L’essere che può venir compreso è il linguaggio”. Ora, al di là del fatto – per nulla trascurabile – che il linguaggio non è soltanto la parola e la lingua verbale, certamente le parole che si usano indicano qualcosa. Specialmente quando diventano parole d’ordine utilizzate dai media e, in modo del tutto irriflesso, dalle persone. È evidente che mettere pasta e pane tra i beni di necessità e dolci o alcolici tra quelli inutili è del tutto arbitrario. Lo è sia sul piano culturale; ma, ancora più importante per me, sul piano etico-politico.
Quando ci viene detto cosa è necessario, ci si riferisce alla salute? In questo caso, si potrebbe distinguere tra beni salutari e non salutari, ma siamo sicuri che funzioni? In questi giorni molti si sono messi a fare pizze e pani: dipenderà, la loro salubrità, forse anche dalla qualità delle farine? Da che lieviti si usano? E ovviamente, dalla quantità che se ne mangia? Un’altra possibilità sarebbe riformulare questa distinzione nei termini di costo e accessibilità: beni a basso costo versus beni di lusso, ma anche questa riformulazione è molto debole perché, come si sa, ci sono pani, pizze, verdure e frutta che costano molto di più di certi dolci e certi alcolici. Ci sono, insomma, questioni complicate e intrecciate: quella salutistica-dietetica (ma cos’è la salute? Salute fisica, salute mentale, salute dell’anima? Chiederebbe un nuovo Socrate); quella culturale, quella socio-politica, quella economica e – infine – quella etica, anzi direi: etico-estetica, attinente alla sfera delle cosiddette “libertà individuali”. Ciò che è “necessario” per me, può non esserlo per te, eccetera. Dove porre il limite?  Il sistema capital-consumistico si fonda sul principio-dogma delle libertà individuali (una certa idea di salute, di società, di economia, ecc.). Ora, in base a tutto questo, chi può prescrivere che comprare una bottiglia di Champagne al supermercato, durante questa emergenza sanitaria, non sia essenziale? Nessuno può razionalmente farlo, non basta il buon senso. Ed ecco che la prescrizione, e la sanzione, diventano un atto di autorità, un ordine”.

«Il sapore della mela è nel contatto del frutto con il palato, non nella mela stessa.» Uso questa citazione di Borges, che a sua volta riporta le parole del vescovo George Berkeley, perché mi permette di riassumere in breve ai lettori parte di quello che tu chiami percezione aptica. L’aptico è un tassello chiave nel comprendere il tuo pensiero. È la lente che usi per osservare la nostra relazione con il cibo e il vino. Perché è così importante?

“L’aptico è un modo di percepire. Un approccio in cui sentire e pensare non sono due momenti distinti ma corrispondenti, intrecciati. L’approccio aptico chiede apertura ed ascolto, mancanza di intenzioni e di obiettivi, esposizione all’incontro. È un modello relazionale di conoscenza, come si dice. Così, il gusto aptico è quella percezione gustativa che non ha un progetto sull’oggetto gustato (deve essere così e così, deve coincidere con quel che ne so già, eccetera) ma che, invece, lo incontra nella situazione presente, nell’esperienza, come se fosse sempre la prima volta. Naturalmente, c’è sempre anche una parte della percezione che viene dalla memoria, dallo sfondo del passato, e un’altra parte, parallela e simultanea, che è esplorativa, proiettata in avanti: come un tappeto che si distende man mano che si cammina.
Io sono arrivato a questa proposta dell’aptico anni fa, partendo dall’osservazione dei degustatori professionali – in particolare di vino – e constatando che, nella maggior parte dei casi, il loro approccio non era di questo tipo ma si riduceva ad un approccio ottico. Con gusto ottico, per contrasto,  intendo quella modalità che cerca di oggettivare, distanziando il soggetto gustante dall’oggetto gustato e facendo come se il soggetto fosse un medium trasparente, ininfluente. Un approccio che imita il metodo scientifico moderno, basato sull’idea dell’isolabilità degli oggetti e della distanza dal soggetto.  Credo che l’approccio aptico permetta di disporsi a un modo più partecipativo e intimo con ciò che si incontra: un vino, un cibo. Ciò che occorre superare è l’illusione – o la mistificazione – del dato “oggettivo” della qualità, rivendicando la creatività e la responsabilità della percezione nella situazione, nel momento in cui accade”.

Ci sono tanti fenomeni al momento che minacciano di orientarci nella direzione opposta. Quella dell’osservazione a distanza e della separazione. Penso alle misure di social distancing, che sopravviveranno ben oltre la fine del lockdown; e alla paura mista al crescente desiderio di incontaminatezza del cibo (ricordiamo la presunta origine del SARS-Cov 2 nel mercato del pesce di Wuhan). Non si tratta di barriere nei confronti del percepire aptico?

“Per come lo uso io, l’aptico è trans-sensoriale, non riguarda solo il tatto; la tattilità che l’aptico propone non è solo tattilità fisica. Questo è un punto molto importante per me. Nel caso del gusto aptico, ovviamente, l’introiezione della sostanza alimentare è un momento fondamentale, anche se si comincia a gustare ben prima di mettere il vino alla bocca, e si continua a farlo anche dopo; tuttavia, ciò che più importa è disporsi a un atteggiamento di attenzione, apertura ed ascolto alla situazione, all’esperienza, all’atmosfera nella quale si è immersi. Si può vedere apticamente, udire apticamente, odorare apticamente oppure no.  Quindi, si può percepire apticamente anche a distanza fisica: pensa all’empatia o alla sim-patia con ciò che ci circonda. Da questo punto di vista, non mi preoccupa molto il social distancing in sé, quanto di come esso viene incanalato e vissuto. Anzi, sotto un certo profilo, esso può persino rendere più consapevoli di quanto fossero vuote e vacue certe prossimità. Altro discorso per il giusto tema della purezza e dell’incontaminato che tu poni: l’aptico è l’esperienza consapevole dell’intreccio e della relazione; l’esperienza che la vita è, per dirla con Vinicius de Morales, l’arte dell’incontro. Quindi è il contrario della purezza. Ma l’incontro può avvenire anche tra stelle lontane, come diceva Nietzsche quando parlava dell’amicizia. Certo, oggi c’è un’ideologia potente che collega distanza fisica a sicurezza, barriere a purezza e incontaminatezza: queste sono espressioni rigide, di chiusura e non di ascolto, ed esse esprimono, nel senso che ho chiarito sopra, una modalità ottica e separante di abitare nel mondo.

 

Il gusto, nel tuo ultimo libro Estetica ecologica. Percepire saggio, vivere corrispondente (Mimesis, 2020), è un elemento ambientale. Il gusto “avviene” e più che un dato fisso, è un compito.  Cosa vuol dire?

“Occorre distinguere due piani. Il gusto, sul piano dell’esperienza concreta e reale, avviene e si sviluppa nella situazione in cui è immerso. La luce, l’ora, il giorno, le condizioni fisiologiche e psicologiche del gustante, le condizioni in cui si trova ciò che si gusta, come una bottiglia di vino (la sua età, il suo stato, la sua conservazione, etc.). Tutto questo è ineliminabile e inaggirabile. Non esistono, sul piano fenomenologico, cioè concreto e reale, condizioni “neutre”, oggettive, non esistono possibilità di non essere “influenzati”. Tutto ciò mi porta a dire che il gusto è un processo cioè: il gusto non esiste (su questo piano ora descritto) ma si fa, avviene, si realizza man mano. C’è poi il piano dell’astrazione concettuale: ed è proprio questo ciò che facciamo quando “fissiamo” il gusto, descrivendolo con termini fissi e oggettivando. Quello che succede è una cristallizzazione, un “blocco” del processo dell’esperienza, dal quale estrapoliamo una fotografia che ci sembra utile e significativa in relazione a certi scopi che ci riguardano (un certo modello di “qualità”; gli interessi produttivi e commerciali; il marketing, ecc.) Ora, tutto questo è legittimo e, per certi aspetti, necessario. Ma è necessario sapere, tuttavia, che è proprio questa astrazione ne configura l’idealità. Dire che il gusto avviene ed è un compito è la semplicissima osservazione dell’esperienza vissuta, come essa si dà nella vita che viviamo.
Viviamo sempre tra l’esperienza in corso e la sua fissazione, quando usiamo concetti e parole. Catalogare, classificare, descrivere con parole significa fissare; per fissare, devo interrompere il flusso; interrompendo il flusso, stacco la spina alla vita. Come si dice: vivisezionare. Non posso vivisezionare mantenendo la vita, perché la vita è relazione e interdipendenza. Nella realtà, si gusta con tutto: non solo, come miseramente alcuni talvolta ancora pensano, con bocca e naso, e nemmeno solo con gli altri sensi o il cervello. Il sentire/pensare è esteso, va al di fuori del nostro cervello, come ci dicono oggi peraltro le ricerche più avanzate della filosofia della mente; è una continua relazione corrispondente e risonante con l’ambiente. Quindi, il gusto avviene con l’ambiente in cui accade, di cui tutto fa parte”.

In Cina, di recente, è stato emesso un divieto di mangiare carne di cane e gatto, questo non può far scomparire la voglia di mangiare carne di cane e gatto nelle persone. I gusti non si possono regolare per legge. Ciò non toglie che, indirettamente, e cioè limitando la libertà di circolazione e riducendo i canali di approvvigionamento, anche le scelte alimentari possono essere direzionate (penso al boom della Gdo). Di conseguenza anche il gusto può essere reso uniforme/omologato.. Che ne pensi, come se ne esce?

“Se ne esce essendone consapevoli e, al contempo,  fregandosene. Mi spiego meglio: è normale che, dal punto di vista del legislatore, ci siano queste scelte, fanno il loro lavoro, così come le persone che hanno voglia di cose che vengono via via proibite. Nella storia è accaduto tante volte. Quindi nascono speakeasy, in un certo periodo storico, in un altro commerci di carni vietate, eccetera. Sono cose ricorrenti e temporanee. È la vita che, come dici te, è impossibile da normarec’è sempre una lotta tra la norma e la vita, che riemerge continuamente trovando forze, forme e vie nuove. Personalmente, per gusto personale, non sono interessato al piano direttamente politico di queste questioni, anche se so bene che ci sono lobby che favoriscono una cosa o l’altra e che ognuno di noi partecipa dell’una o dell’altra in base alle sue convinzioni. Non dico che non si deve lottare, ognuno faccia quello che pensa giusto. A me interessa di più contribuire allo sviluppo di un piano di consapevolezza delle persone, che poi porterà forse a un cambiamento. Questo richiede un sentire, un intero modo di vivere che viene percepito diversamente. Come dice Jodorowsky: dalla rivoluzione politica alla ri-evoluzione poetica”.