
La vera cotoletta alla milanese, l’orecchia d’elefante e la Wiener Schnitzel. “La cotoletta? Ma quella è carne di vitello impanata e fritta nel burro: è capace pure un deficiente“. All’Osteria alla Grande, una delle storiche di Milano, ci rispondono così, un po’ sbrigativi. Forse non tutti i ristoratori milanesi sono pronti a raccontare i segreti della loro cotoletta, o costoletta, come la chiamano i puristi. E allora ci siamo rivolti a due maestri del piatti simbolo di Milano (insieme al risotto), gli chef Giovanni Traversone, della Trattoria del Nuovo Macello (che sentimmo già qui), e Cesare Battisti, di Ratanà. Attraverso di loro scioglieremo tutti i dubbi su quale sia la vera cotoletta alla milanese, visto l’imperversare di varianti più o meno modaiole (come l’orecchia d’elefante) e l’eterno parallelo con l’austriaca Wiener Schnitzel. A sdoganarla ai massimi livelli fu Gualtiero Marchesi, uno che di alta cucina qualcosina la capiva. Ma tra tradizione e innovazione, integralismo e modernità, ecco a che punto ci ha portato la nostra indagine sulla vera cotoletta alla milanese.
Il nome: cotoletta o costoletta?

Si parte dall’Abc: quella che per i “pagani” è la cotoletta per i più osservanti è la costoletta, perché si tratta del lombo del vitello, ricavato dalla zona in prossimità della costola. “In origine si parlava di ‘costuleta col manueber’, costoletta col manubrio, cioè l’osso che spunta oltre la carne, da prendere in mano”, ci dice Cesare Battisti, chef di Ratanà. Per mangiare la costoletta da lui, bisogna prenotarla il giorno prima. “Sono in troppi a chiedermela, dopo che è apparsa in diverse guide – spiega – Prepararla prima e tenerla in caldo per poi servirla quando non è più al massimo del suo gusto non fa per me, per questo ho deciso di toglierla dal menu”.
La carne (vitello) e il burro (chiarificato)
Continuiamo con le basi. Per l’originale si utilizza carne di vitello, che è un bovino tra i cinque e gli otto mesi (poi diventa vitellone), che dà una carne bianca, tenera e poco grassa. Nello specifico si usa il carré di vitello, ricavandone un taglio alto due dita, tra i 2 e i 4 centimetri. La carne viene frollata per un periodo abbastanza lungo (al Ratanà sono 20 giorni, al Nuovo Macello addirittura più di 30). Poi si passa nell’uovo sbattuto e si impana, per poi passare al soffritto nel burro chiarificato. Il fatto che il burro sia chiarificato può sembrare secondario, ma non lo è per digestione e colesterolo: “La chiarificazione – spiega Battisti – permette di separare il grasso dalla caseina, un processo che è molto importante per alzare il punto di fumo dei grassi animali, generalmente molto basso, ed evitare di bruciarlo”.
L’altezza e la cottura (rosata e croccante)
Per avere un’idea ancora più chiara, si può andare alla Trattoria del Nuovo Macello, dove la vera cotoletta alla milanese la fanno da tre generazioni. Oggi la cucina è in mano a Giovanni Traversone: per parlare di questo classico milanese bisogna passare da lui. La trattoria esiste dal 1958, Traversone ha modificato la ricetta originaria solo nei dettagli più minuti. “La nostra cotoletta è ancora un po’ più alta del normale. Puliamo anche un po’ di più la carne, rimuoviamo la parte di osso nella parte inferiore della cotoletta. E preferiamo una cottura lievemente più rosata rispetto alla media, per averla croccante fuori e rosata dentro“.
Per ottenere la croccantezza perfetta su tutti i lati, invece, Battisti di Ratanà impiega otto minuti, quattro per lato. “Continuiamo a bagnare i bordi e ad aggiungere altri pezzi di burro congelato durante la cottura per evitare che la temperatura si alzi troppo e il grasso bruci”, racconta lo chef del Ratanà. In più, qualche foglia di salvia per aromatizzare il burro, e il gioco (non semplice) è fatto. Dettaglio non irrilevante è il breve momento di riposo che tutte le cotolette dovrebbero vivere prima di essere consumate: “Se venissero tagliate subito, perderebbero liquidi e la cottura non risulterebbe uniforme”, spiega Battisti.
Le varianti? Sottovuoto e bassa temperatura, vade retro
Traversone è invece scettico sulle nuove declinazioni di questo piatto che vengono proposte in città. “Non si può far chissà che cosa a questa ricetta. Ho assaggiato alcune varianti che propongono oggi. Il sottovuoto, che però a mio parere fa perdere un po’ di gusto. E la cottura a bassa temperatura“. Diffidate dalle imitazioni. “Al di là di questo, tutto il resto ha vita breve, sono piatti troppo fuori dalla tradizione”, spiega lo chef.
L’orecchia d’elefante? Modaiola e poco salutare
E l’orecchia d’elefante? Non si tratta di parti di pachidermi squartati, ma semplicemente di carne battuta tanto da raggiungere una dimensione spesso più grande del piatto in cui viene servita. “Si tratta di una variante modaiola che si è diffusa negli anni ’60-’70 – continua Traversone, – si percepisce quasi solo il sapore del pane fritto, e la qualità della carne non ha più importanza visto che la tenerezza viene raggiunta tramite la battitura.
Per non parlare del livello salutare: le quantità di pane e uovo necessarie per impanare un’orecchia d’elefante sono immense rispetto a quelle necessarie per la classica”. Spesso l’oreggia d’elefant viene servita, come era di moda negli anni ’80, “vestita“: ovvero ricoperta di una cascata di rucola (che però ammolla la panatura croccante).
La Wiener Schnitzel? E’ il lumbulos cum panicio
Sulla paternità, secondo la campana milanese almeno, non c’è dubbio: “Non solo il generale Radetzky ha scritto all’imperatore Francesco Giuseppe per raccontargli che piatto straordinario ha assaggiato a Milano, ma addirittura nella Basilica di Sant’Ambrogio è conservato un documento del XII secolo che parla di ‘lombus cum panicio‘. Direi che a questo punto la paternità è innegabile”, sottolinea Battisti.
La differenza fondamentale è la carne. Mentre i lombardi privilegiano il carré, gli austriaci utilizzano tagli meno privilegiati, come la coscia e la bistecca. O addirittura cambiano proprio animale, utilizzando il maiale. Secondo alcuni storici, la primogenitura della Milanese rispetto alla Wiener Schnitzel è certificata da una pergamena del 1148. Nella quale si parla di “lumbulos cum panicio”, riportata anche da Pietro Verri.
Altro elemento eretico è la preparazione: “Quella della costoletta è notevolmente diversa da quella della Schnitzel – racconta Battisti – che viene infarinata prima di essere passata nell’uovo. Gli austriaci poi, soprattutto nel passato, a volte friggevano direttamente nello strutto”. Quasi mille anni dopo però, per la cronaca, non l’ha ancora spuntata nessuno.
Carne di pollo, blasfema ma religiosamente corretta
A non farsi troppi problemi per quanto riguarda il tipo di carne utilizzata è Luca Stevaraglia, uno dei tre soci di Cotolicious, un progetto di street food gourmet che la cotoletta impanata la fa con la carne di pollo. La particolarità della proposta di Cotolicious è la possibilità di combinare a piacimento sei diverse panature con dodici salse differenti, tutte compatibili. All’elaborazione del menu hanno collaborato anche Eugenio Boer, chef stellato del Bu:ur, e Marco Avella del Ficodindia.
Per mantenere le identità di panature e salse, pur trattandosi di chioschi street food sparsi nella città (uno nel parco Ravizza, uno nel parco Sempione e uno in piazza Duca d’Aosta), i sei tipi di cotolette vengono preparate separatamente e cotte in vasche diverse. In questo modo, erbe, paprika, pistacchio, agrumi e curry non si sovrappongono. Sulla scelta “blasfema” della carne di pollo Steravaglia ha le sue ragioni: “Abbiamo cercato una materia prima che potessimo trovare a un livello qualitativo stabile e che non presentasse eventuali problematiche religiose“, spiega.
Infatti, i suoi piani puntano ben oltre i confini di Milano, dove pure aprirà un quarto Coto-corner nel corso del 2019. La volontà è infatti quella di esportare a breve il progetto suo e dei suoi soci all’estero. Continuando a introdurre nuove varianti di panature e salse.
Insomma, nel dubbio ce n’è per tutti i gusti, perché la cotoletta non passa mai di moda.