Intervista a Roberto Ceraudo, pioniere del vino biologico e produttore di Dattilo: “Basta trattori, torniamo alla terra di 100 anni fa”

Intervista a Roberto Ceraudo, pioniere del vino biologico e produttore di Dattilo. A 70 anni cavalca il suo trattore con la stessa agilità visionaria di Don Chisciotte con il suo ronzino ronzinante e parla incessantemente. Si ferma per tagliare una rosa e offrirla a una signora in carrozza (che è poi un rimorchio attaccato al trattore). Addita fiero i suoi ulivi millenari, tronchi massicci e intrecciati, opere d’arte immortali della natura. Difende con orgoglio i calabresi , raccontando aneddoti che partono dalle origini popolari del brigantaggio e dilagano fino a Trump, passando attraverso racconti sull’immigrazione, sullo sfruttamento del Nord e sulle calabrotte.

Ma noi ci soffermiamo sul suo suo piccolo impero, la sua azienda agricola di Strongoli (nel crotonese, ben raccontata anche qui), i 20 ettari di vigneto e le 80 mila bottiglie prodotte all’anno. Pioniere del vino biologico (è stato il primo certificato in Calabria), Ceraudo ha un’azienda bellissima, un ristorante stellato Michelin con la giovanissima e già acclamata figlia Caterina alla guida, e una produzione di vino tra i migliori della regione. Lo abbiamo seguito sul trattore, rischiando di aggravare le ernie e seguendolo in tutte le sue divagazioni, comprese le lettere di papa Wojtyla conservate nella chiesetta, fino alla storia della Magna Grecia: ma ne è valsa la pena.

Roberto, come è nato tutto questo?
“Dopo il servizio militare nel 1973, ho pensato di comprare 40 ettari di terreno. Sono andato alla Cassa di risparmio di Cosenza. Il direttore, dopo che gli ho spiegato, ha fatto il giro della scrivania. Io ho pensato: ora mi manda a casa. E invece mi dice: giovincello, questa per noi è la migliore operazione, perché per 30 anni mi pagate gli interessi e nello stesso tempo abbiamo un’ipoteca di primo grado. E così è nato il sogno”.

E come è successo che ha deciso di convertirsi al biologico, primo in Calabria?
“Ci sono cose nella vita che ti cambiano. Il 28 maggio 1987 stavo facendo dei lavori in vigna. Mi si è rotto il tubo dell’alta pressione dell’atomizzatore e mi ha fatto una doccia. Ho fatto l’errore di non lavarmi subito. La notte, all’improvviso, mi sento malissimo. Mi portano in ospedale, dove rimango per sei giorni in rianimazione. La diagnosi: avvelenamento per via cutanea da pesticidi, acido metilico di prima classe venduto dai consorzi agrari. Dopo di allora, ho deciso di non usare più chimica”.

Ora si sta convertendo al biodinamico.
“Sì, ma il mio sogno è un altro. E’ quello di tornare ad avere la flora batterica e il terreno di 100 anni fa”.

E come si fa? Non usando più chimica?
“Non basta. Bisogna eliminare anche i mezzi meccanici. Il trattore passando sul terreno, coltiva i 20-30 centimetri sopra, ma sotto fa una lastra di cemento armato, dove non vivono più gli insetti. Da 7 anni non tocco più la terra con il trattore. Così rivivono lombrichi e ragni ed escono fuori le erbe della biodiversità. Le erbe stagionali fanno buchi nella terra, la pianta espande l’apparato radicale e dai buchi passa una micro ossigenazione che produce un grande grappolo d’uva. Grappolo che in cantina si può solo rovinare”.

A proposito di cantina, lei usa molta barrique. Negli ultimi anni sembra diventata il male.
“Macché. Le barrique sono strumenti, possono essere usate bene o male. Dipende da che botti sono, da quale vitigno, da quanto si usano. Si fa peggio, molto peggio, con i sacchi di truccioli messi nelle vasche d’acciaio”.

Su questo non c’è dubbio. Ma non se n’è fatto un abuso delle barrique?
“Noi la usiamo quando necessario. Ma scusi, Gaja e Biondi Santi non fanno tra i migliori vini del mondo con la barrique?”. 

Il suo Dattilo è un Gaglioppo 100 per cento. Come mai non usa la Doc Cirò? Per una questione di territorio, visto che siete a Strongoli, o per altro?
“La Doc è burocrazia, è uno strumento che è stato sputtanato. Prenda Librandi, i suoi vini di valore sono il Gravello, Duca San Felice, Magno Megonio, che sono igt non doc. E poi, come sa, il Sassicaia è un vino da tavola”.

Il vino calabrese è poco noto. E’ conosciuto un po’ la doc Cirò, ma stenta a decollare. Come è cambiato negli ultimi anni?
“E’ molto migliorato. Ci sono un nugolo di bravi produttori: De Franco con A’vita, Cataldo Calabretta, Arcuri, De Mare. E anche gli storici, da Caparra e Siciliani a Ippolito, hanno migliorato il loro vino, con le nuove generazioni”.

A voi come vanno le vendite?
“A noi benissimo. Quest’anno abbiamo messo in commercio l’annata 2017 il 1 giugno: il 27 dello stesso mese era già finito, tutto assegnato”.

A 70 anni si è tolto diverse soddisfazioni.
“Ma ancora sogno. Ho chiesto che gli ulivi che ho nei miei terreni, e che risalgono fino a 1530 anni fa, diventino patrimonio dell’Unesco. E sogno di realizzare un grande vino quando la terra tornerà quella di una volta. Nel frattempo, c’è da pagare i debiti, che non finiscono mai”.

A questo punto Ceraudo balza giù dal trattore, prende tra le dita un gigantesco grillo che stava terrorizzando un visitatore e scappa a innaffiare le viti. Noi ne approfittiamo per una serata al ristorante Dattilo e per approfondire la conoscenza con i suoi vini, dal sontuoso (anche troppo) Dattilo, al vigoroso rosato GrayaSusi (l’etichetta argento è barricato), fino al Grisara 2016, realizzato con il vitigno autoctono calabrese Pecorello, bianco premiato con i Tre Grappoli del Gambero Rosso 2018.  Per finire, uno spettacolare Do Robè, passito fatto con uve magliocco invecchiate otto anni.

Intervista a Roberto Ceraudo

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