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Guida essenziale ai vini d’Italia 2017, intervista a Daniele Cernilli (DoctorWine). Nonostante in Italia ci siano tante piccole aziende “eccezionali”, realtà artigiane che producono un ottimo vino, “si parla sempre e solo di grandi eccellenze invece che di normalità”. E fuori, soprattutto oltreoceano, il nostro vino è visto come “cheap and cheerful”, cioè economico e gradevole. Con la conseguenza che vendiamo molto ma a basso prezzo e il nostro volume di affari nelle esportazioni, a parità di produzione, è la metà di quello francese. Daniele Cernilli, più noto come DoctorWine, sintetizza così lo stato della produzione del vino in Italia. Quanto alla politica, contribuisce con “interventi a pioggia” e utilizzando il ministero delle Politiche agricole come “parcheggio” per chi attende altri ruoli.Il direttore di doctorwine.it, fra gli artefici del Gambero Rosso, domenica presenterà a Roma, all’Hotel Parco dei Principi, l’edizione 2017 della Guida essenziale ai vini d’Italia. “Il nostro vino – spiega in un’intervista a Puntarella Rossa – vale in media solo tre euro al litro, contro i sei euro di quello francese. Ci riempiamo la bocca con parole come ‘eccellenze’, ma è solo politica ed è insopportabile. Perché le eccellenze le fanno da altre parti. Noi esportiamo molto vino a un prezzo bassissimo, mentre i francesi esportano la metà del nostro vino al doppio del fatturato”.
Ha senso parlare del miglior vino d’Italia?
“No, non ha molto senso, come non ha senso parlare del miglior libro o del miglior piatto della gastronomia italiana. Sarebbe superficiale. Se vogliamo informare le persone bisogna evitare questo tipo di generalizzazioni”.
E di industria italiana del vino?
“La nostra produzione è fatta di piccole aziende. E’ improprio parlare di industria vera e propria. Abbiamo una parcellizzazione della produzione: ci sono 600mila ettari di vigneto, l’equivalente della Liguria, per 500mila produttori di uve da vino. Questo vuole dire che la proprietà media di un vigneto è di un ettaro e dieci. In Francia è di due ettari e mezzo. In Australia è di 150 ettari. Siamo una realtà di piccolissima industria. Il nostro è un vino artigianale che si oppone a grandi vini industriali”.
Riusciamo comunque a competere?
“Alti e bassi. Purtroppo produciamo molto vino, anche di qualità, ma lo vendiamo a prezzi inferiori. Abbiamo un fatturato annuo che arriva a 13-14 milioni di euro. La Francia, invece, che produce più o meno come noi, ha il doppio del nostro fatturato”.
Quindi il nostro vino vale la metà di quello francese.
“Ci sono due modi per valutare la qualità di un prodotto: una è la qualità intrinseca, l’altra è quella percepita. Se quest’ultima non è adeguata alla prima il prezzo decade. Il problema è come siamo visti da fuori. Non ci viene riconosciuto il prezzo che chiediamo, nonostante abbiamo prodotti di qualità. In America dicono che i vini italiani sono ‘cheap and cheerful’. Un grande insulto”.
Insomma, si stanno facendo degli errori.
“Sul fronte comunicativo siamo molto indietro. La comunicazione, le guide, le riviste dovrebbero servire proprio a far conoscere la qualità italiana. Al momento siamo i più grandi esportatori per quantità ma non per fatturato. Per certi versi siamo ancora dei contadini, come quando abbiamo iniziato nel Dopoguerra. Siamo un paese di artigiani anche nell’agroalimentare”.
Non siamo competitivi.
“Nei nuovi mercati, come quello cinese, noi ci muoviamo in ordine sparso e di fronte abbiamo una falange macedone, come la Francia. Il ministero delle Politiche agricole non è più quello di una volta. Regioni e consorzi fanno delle cose una tantum e non in maniera coordinata”.
Quindi è la politica a sbagliare?
“Nel mondo dell’agricoltura la politica è come la pioggia: se ce n’è un po’ fa bene, se ce n’è troppa fa marcire tutto. Purtroppo in Italia, in questo ambito, la politica ha messo sempre gente poco competente, parcheggiata lì in attesa di altri incarichi migliori. Il ministero è un refugium peccatorum. Da quarant’anni a questa parte, ci sono stati una serie di ministri dell’agricoltura che non ne sapevano nulla del settore, burocrati messi lì per occupare uno spazio politico. L’agricoltura viene considerata una delle cose meno importanti ed è stata gestita con cialtroneria”.
L’enogastronomia italiana però è apprezzata in tutto il mondo.
“Sì è vero, ma va da sé al di la delle politiche agricole nazionali. Non riusciamo a gestire questo successo, che per fortuna va per conto suo. La politica su questo è stata un disastro, perché non è riuscita a veicolare i risultati. Quello che è successo, è successo nonostante la nostra politica“.
Vini naturali e biodinamici, sono solo una moda o c’è qualcosa di più?
“Devo dire subito che di ‘naturale’ nel vino c’è ben poco. Se dietro una vigna non ci fosse l’uomo, non ci sarebbe il vino. La produzione di vino non è un fatto naturale, ma culturale. La cosa importante, invece, che tutti i produttori dovrebbero tenere presente, naturali e non, è l’ecosostenibilità della produzione vinicola. Al di là delle parole, delle sigle o delle filosofie si deve tenere presente questo obiettivo, a cui si può arrivare con la biodinamica, la viticoltura biologica o, semplicemente, con il buon senso”.
A che punto siamo con la riduzione dei solfiti?
“Ci sono tante sperimentazioni per utilizzare sempre meno solfiti. Abbiamo il Wine research team, italiano, composto da trenta aziende che producono un milione di bottiglie all’anno senza solfiti. Sulla base di ricerche di carattere scientifico si cerca di capire cosa sostituire alla solforosa, che è necessaria per preservare il vino”.
Un produttore da tenere d’occhio.
“Nella guida 2017 abbiamo premiato come azienda dell’anno, una piccola cooperativa dell’Alto Adige, la Cantina Terlano“.
E un rosso per le grandi occasioni?
Il Taurasi di Michele Perillo, ne produce circa 20mila bottiglie. Un grande rosso dell’Irpinia. Un vino eccezionale.
Giuda essenziale ai vini d’Italia. Domenica 23 ottobre presentazione all’Hotel Parco dei Principi, via Frescobaldi 5 Roma. Dalle 16:00 alle 21. Sito