
Ore 23, Lungotevere, Roma, Italia. Seduti ai tavolini del ristorante La Crostaceria, dopo aver apprezzato un buon piatto di spaghettoni con mollica e acciuga, chiamiamo il cameriere: “Potremmo avere un amaro?”. Alla domanda, si incupisce. Scuote la testa. Allarga le braccia.
“Ma un altro bicchiere di vino?”. “Beh, ma noi vorremmo un amaro“. “Scusate ragazzi, non si può. Qui è proibito servire alcolici sopra i 21 gradi. C’è un’ordinanza del Comune. E’ pazzesco ma è così”.
Ventuno gradi? L’amaro del Capo ne ha 35. La grappa da 35 a 70. Il Passito di Pantelleria è a rischio, sopra il 20. E insomma, niente. Per bere un superalcolico, anche moderato, dobbiamo andare via. E’ uno degli effetti dell’ordinanza anti alcol del Comune di Roma. Ingenui noi a non pensarci. Ma è che quando lo leggi sui giornali non ne capisci la portata. Leggi della movida, di quanto i mitici “residenti” (categoria indistinta che prima o poi andrà individuata un po’ più precisamente) non ne possano più di ubriachi e pensi che abbiano ragione e che in fondo perché no, fermiamo la deriva alcolica.
E’ quando sei seduto su un tavolino del Lungo Tevere, perfettamente sobrio e intontito dall’afa, e vuoi un sorso di innocente amaro, come fanno da generazioni gli umani a fine pasto, che capisci quanto sia lastricata di buone intenzioni la via dell’ottusità (e dell’illiberalità).