di Alberto Stabile
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Osteria I Panteschi a Roma. Dice il mio amico Mario Genco, giornalista, scrittore e maestro di molti di noi, che ci sono “isole di mare” e “isole di terra”. Pantelleria appartiene a quest'ultima categoria. A Pantelleria non ci son pescatori, il pesce lo importano da Lampedusa e forse anche dal continente. E dubito che ci siano marinai a parte diportisti e vacanzieri da scoglio. Ci sono invece molti contadini, i cui antenati hanno popolato l'isola ai tempi in cui Pantelleria era (anche) una località di confine e di confino. E questi contadini hanno reso l'isola smagliante, di colori contrastanti, di profumi, di sapori. Terra grassa, nera bruciata due volte, sotto e sopra, dal vulcano che ne abitava un tempo le viscere e dal sole che continua a percuoterla fino allo sfinimento. Ora un po' di Pantelleria è approdata a Roma, con l'Osteria I Panteschi, nel cuore di Monteverde.
Ecco perché la cucina pantesca affonda le sue radici nelle case di quei contadini dove per forza di cose abbondavano gli ingredienti poveri come il pomodoro, la cipolla, le olive, i capperi, la menta, il pangrattato, residuo della vastedda non più fresca e sostituto del formaggio, le verdure come le zucchine e le melanzane che l'acqua salmastra, contrariamente a quanto si creda, addolcisce, e dove troneggiava il coniglio selvatico, l'unico tipo di carne che l'isola offriva praticamene gratis alle legioni di cacciatori (dietro ogni contadino che si rispetti c'è un cacciatore) che la popolavano. Oggi che la caccia è in disuso, mentre fioriscono gli allevamenti, il coniglio alla pantesca, cotto lentamente in una salsa di pomodoro, cipolla, capperi, olive, carote, sedano, rosmarino, alloro, e sfumato col vino bianco, resta il re del menu dell'isola. Il coniglio, non il cous cous, che pure la provincia di Trapani ha nobilitato con il pesce come ingrediente base.
Tutto questo per dire che mangiare alla pantesca è come affondare lo sguardo in una tavolozza di colori vividi che ci riporta al paesaggio dell'isola, il nero della pietra lavica che fa da sfondo al verde delle vigne, al viola della bugainvillea e al bianco dei gelsomini, e alla natura semplice, cordiale e laboriosa della sua gente.
Ora, da poco più d'un mese, grazie ad Alessandro Gabriele e Tonino Castiglione, la cucina di Pantelleria ha un indirizzo anche a Roma, quello del ristorante “I Panteschi”, via dei Quattro Venti 70, che la mattina offre un brunch di specialità isolane (prezzo medio intorno ai 10 euro, bevande escluse) e la sera un menu alla carta sempre a base di piatti rigorosamente autoctoni (prezzo medio sui 30 euro, vino escluso).
Gabriele e Castiglione sono “figli d'arte”. Il primo è cresciuto tra la sala e la cucina de “La Favarotta”, forse il più noto dei ristoranti tradizionali dell'isola, mentre Castiglione ha potuto farsi le ossa nella trattoria di famiglia, in paese.
A Roma hanno messo su un locale in cui si respira amicizia, spontaneità e il gusto per gli antichi e perenni sapori dell'isola, ovviamente qua e là utilizzati anche per qualche rivisitazione. Ma se volete assaggiare i ravioli alla pantesca (ricotta, tuma, menta e sugo di pomodoro), o gli spaghetti al pesto con la mandorla e il pomodoro grigliato (variante significativa rispetto a pesto alla trapanese che il pomodoro lo lascia crudo), o i due stufati di verdure, lo Shaki Ciuka e la Cuccuramma, questi sì testimonianza di una cucina che si faceva con quel che c'era in casa cotto “a tutto dentro”, “i Panteschi” è il luogo dove andare.
Del coniglio non dirò oltre. Quando ne ho chiesto gli ingredienti ad Alessandro Gabriele, mi ha risposto: “Tutto quello che il coniglio mangia da vivo noi glielo diamo da morto”. Ma nell'evoluzione naturale del menu di Pantelleria è entrato, ovviamente, anche il pesce che Alessandro propone con orgoglio: la cernia alla pantesca, cucinata al forno con quelli che potrebbero anche essere gli ingredienti di una matalote e il calamaro ripieno di mollica di pane, cipolla, pomodoro, cappero e cotto in tegame con il vino bianco.
La ricotta del “bacio” non può mancare per chiudere, accompagnata da un buon passito artigianale (anche se non mancano le etichette tanto prestigiose quanto costose) prodotto dalla cantina di Francesco Minardi, che offre anche un eccellente zibibbo in purezza, un vitigno che secondo me andrebbe incluso nella lista dei beni “Patrimonio dell'umanità” dell'Unesco. Ma ottimi e dai prezzi accessibili sono anche gli altri bianchi che offre la casa. Impagabile l'atmosfera del locale.
Osteria I Panteschi, via dei Quattro Venti 70, Roma. Tel. 06.93379525 Pagina Facebook