di Valerio M. Visintin
Le Grand Fooding, Identità golose, The World's 50 Best Restaurants, Taste of Milano e lo scandalo della carne di cavallo nei tortellini. Sapete qual è il termine di congiuzione di queste evidenze gastronomiche? È la Nestlé, sponsor di fragorose grancasse culinarie e co-protagonista, attraverso uno dei suoi marchi più fieramente italiani (la Buitoni), di un incidente di percorso che ha avuto eco in tutto il mondo.
Ora che la notizia ha esaurito la sua spinta propulsiva scendendo dal podio delle prime pagine, ora che il coinvolgimento della Nesté ha assunto proporzioni marginali, ora che nuovi tortellini Buitoni sono tornati sugli scaffali con rigide certificazioni (dopo un ritiro volontario, lodevolmente ordinato dalla stessa casa produttrice), possiamo intavolare un esame della vicenda e dei suoi risvolti, senza timore di scivolare in eccessi emotivi.
Se mai ci fossero stati dubbi, quel brivido in cronaca ha reso lampante quanto la macchina promozionale della cosiddetta “cucina d’autore” proceda sull’orlo di una dirompente contraddizione.
Propugna scelte naturali, cura ossessiva delle materie prime, alta fedeltà alle squisite minuzie dell’artigianato. Ma fa viaggiare il suo messaggio con i quattrini di un colosso multinazionale.
È un’opzione della quale non si contesta la legittimità, ovviamente, ma l’opportunità e la coerenza. Poiché non è in discussione il profilo industriale e qualitativo dei marchi Nestlé. Bensì, la credibilità di un movimento che smentisce se stesso e i propri principi per la smania di accreditare nuove mitologie e accaparrarsi palcoscenici sempre più vasti.
Cosa diremmo, al netto delle dovute proporzioni, se un congresso di alto spessore letterario o filosofico avesse come sponsor i cinepanettoni di Massimo Boldi?
Respingo il sospetto che il vocabolo “cultura”, ripetuto ossessivamente dagli chef di grido e dai loro cantori, sia un pretesto senza contenuti per noblitare una serie di operazioni mercantili che, nella migliore delle ipotesi, non servono a riscattare la ristorazione italiana, settore in caduta libera, cimitero di insegne fallite, terra di conquista delle catene seriali.
Voglio credere che queste passerelle abbiano un pescaggio superiore all’effimero bagliore dei flash, ai gridolini delle groupies, ai panegirici di blogger e giornalisti.
Ma allora? Possiamo perdonare a seconde file televisive, come Simone Rugiati, un compromesso acrobatico tra la pubblicità della Coca Cola e i consigli per una cucina buona e virtuosa. Ma da étoile di primissimo piano del calibro di Massimo Bottura si deve pretendere una superiore attenzione agli equilibri della comunicazione.
Eppure, leggo su Scattidigusto.it che (ai primi di marzo, a pochi giorni dalla gaffe equina, con il fuoco delle polemiche che ancora divampava) Bottura è apparso agli States per dispensare la sua benedizione sul capino di A Taste of Italy, manifestazione nata per “tenere alto il nome dell’Italia all’estero”. Che gioia : “…tre cene che faranno da vetrina alla cultura della buona tavola attraverso alcuni dei prodotti italiani più amati e apprezzati all’estero, interpretati dal tristellato Massimo Bottura”.
Indovinate, dai: chi era il primo partner commericale per l’occasione?