Vino, terroir e seno a coppa, Lesson One / Dove si racconta perché un Barolo viene bene nelle Langhe e il Riesling lungo le rive della Mosella: la vitivinicoltura – dottrina dal nome a scioglilingua – spiega che il territorio in cui viene prodotto è fondamentale nel determinare che tipo di vino berremo. E dove si spiega che il bicchiere a coppa è stato modellato sul seno di Madame de Pompadour, amante di Luigi XV, ma non va bene per lo Champagne.
Vitivinichè? No, non voglio tediare nessuno parlando di vite, ciclo biologico e ambiente pedoclimatico. Al massimo, giusto per archiviare la pratica in maniera sbrigativa, posso sottolineare quanto sia importante il luogo in cui la vite viene piantata e le condizioni pedo-climatiche in cui si trova a vivere perché, e questo è importante, quanto è in un territorio si tradurrà, con sfumature diverse, nel vino che berremo. È per questo che un Barolo o un Barbaresco vengono bene solo nelle Langhe, il riesling della Mosella acquista quelle caratteristiche che lo rendono unico solo su quel fiume, lo Champagne, che sia a Reims o ad Avize, possiede un’eleganza impossibile da imitare. È una questione di terroir.
Un vino che nasce su un vulcano, ad esempio, può contenere e fondere, «nel suo pallore e nel suo aroma, nella sua freschezza e nella sua vena nascosta di affumicato, le nevi perenni della vetta e il fuoco del vulcano» (Mario Soldati, Vino al vino), un vino che nasce sul mare può racchiudere in sé una sapidità spiccata che tradisce le sue origini, e così via. Generalizzando, si può dire che la terra, se il vino non ha subìto eccessive manipolazioni in cantina, parla attraverso le caratteristiche che si ritrovano nel bicchiere, attraverso il suo colore, le sue sfumature odorose, il suo gusto.
Per dirla con un pizzico di poesia in più rubo le parole di Sandro Sangiorgi, fondatore della rivista Porthos, outsider enoico con una propria “poetica” enologica: «Con una metafora si può dire che la terra è lo spartito della natura, lo slancio artistico di una condizione particolarmente favorevole; il vitigno è lo strumento che può suonare le note scritte dal luogo, le mani della donna e dell’uomo leggono la partitura e la interpretano».
E, tanto per esplicitare la sostanziale differenza che c’è tra un chinotto e un bicchiere di buon vino, per innalzare il liquido alcolico al di sopra di altre dissetanti ma più prosaiche bevande –…per quanto un chinotto del ’96…–, abbasserei le luci e accenderei lo schermo per rivedere una bella scena di Sideways, tra i film a sfondo enologico il solo che riesce ad essere al contempo ironico e stimolante. Merito di un’intelligente Virginia Madsen e di un irresistibile Paul Jamatti che, in una delle scene cult, durante uno zoppicante corteggiamento si lascia ammaliare dalle parole di lei: «La verità è che amo pensare alla vita di un vino. Il vino è un essere vivente. E amo immaginare l’anno in cui sono cresciute le uve di un vino: se c’era un bel sole, se pioveva. E amo immaginare le persone che hanno curato e vendemmiato quelle uve. E se un vino è d’annata, penso a quante di loro sono morte».
Ora, il vino non è un essere vivente ma questa visione romantica che ne scopre una sfumatura antropomorfa si avvicina molto all’emozione che, in quanto prodotto originale, camaleontico e irregolare, è in grado di suscitare. Ogni bottiglia ha una sua storia, racchiude l’esperienza di chi l’ha prodotta, le caratteristiche di una vendemmia, suscita emozioni, crea atmosfere, allenta tensioni. E ancora scioglie imbarazzi, allevia dolori, accende passioni. Eccetera, eccetera.
Potrei continuare per ore ma dopo questa mitragliata diabetico-sentimentale chiuderei con un prosaico brindisi. D’altronde porta bene per cominciare. La bollicina è d’obbligo. Ed è d’obbligo servirla in una flûte. Per carità, niente coppa! E va bene, c’è tutto il sapore sensuale dell’elegante recipiente. La leggenda infatti vuole che sia stata modellata sul seno di Madame de Pompadour, amante di Luigi XV. Però, per bere spumanti e champagne, fatevene una ragione, non va bene. E se in passato veniva utilizzata, ciò accadeva soltanto perché lo champagne era dolce, e le bollicine grossolane e poco importanti. Oggi invece, dopo l’intervento degli inglesi che prediligevano un gusto diverso, lo champagne si è trasformato, è diventato secco. Così anche la coppa risulta obsoleta – come servire lo champagne a fine pasto insieme ai dolci! –, incapace di mostrare la grana del perlage – importante indizio visivo – ma soprattutto poco adatta a veicolare verso il naso i delicati aromi degli champagne attuali come invece fa il calice dalla forma allungata. Ora però è tempo di brindare. E per evitare accuse di esterofilia punterei su un lineare Franciacorta. Ca’ del Bosco Cuvée Prestige. In enoteca lo trovate tra i 20 e i 25 euro. A parte la scenografica bottiglia – poco tradizionale e un po’ fighetta – si tratta di uno spumante di una delle zone più vocate per le bollicine in Italia. Metodo classico – per ora vi basti sapere che si fa con la stessa tecnica dello champagne e non con quella del prosecco – ha una bollicina fine e vivace, un naso di fiori bianchi, frutta fresca e agrumi (pesca e lime), un gusto fragrante, fresco e di buona sapidità.
Per approfondire la degustazione c’è ancora tempo. Per ora, se contavate di rompere il silenzio tra un sorso e l’altro con la storiella della coppa e del seno perfetto di Madame, beh, anche se non sarà proprio lo stesso…ricordate che potete sempre fare affidamento sugli attributi di Luigi XV.
di Livia Belardelli
(continua) qui la prima puntata di Livia’s Wine
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